mercoledì 29 gennaio 2014

Letti per voi - Annalisa Caravante



Con una attivissima autrice partenopea inauguro questa nuova sezione del blog. 
"Letti per voi" vi offrirà di volta in volta la mia personale opinione di autori esordienti e non: oggi vi darò una piccola presentazione dell'autrice e di alcune sue opere, e più tardi una recensione del suo nuovo libro, in arrivo a brevissimo nel catalogo dell'editore Arpeggio Libero. E giovedì, l'autrice stessa sarà virtualmente presente sul blog per un'intervista in tempo reale con chi vorrà porle qualche domanda.

Ma iniziamo.
Innanzitutto, chi è Annalisa Caravante?

Annalisa nasce del 1977 a Napoli. Al diploma in lingue si affiancano una moltitudine di espressioni artistiche, come il disegno e la fotografia, ma in primo luogo la scrittura: nel 2004 termina il suo primo romanzo, Odissey Life, e nel 2008 se ne aggiunge un secondo, Tersa, disponibile in lettura e download gratuito sul suo blog.
E l'attività amatoriale di trasforma presto in qualcosa di più: nel 2011 arriva infatti la pubblicazione, con l'editore Corebook di Perugia, del romanzo "Il paese degli aghi di pino": ispirato alle storie di Matilde Serao, l'opera è disponibile per l'acquisto nei maggiori store online, ed è possibile leggerne un'anteprima gratuita a questo link
La strada sembra solida, ed Annalisa continua, determinata, a percorrerla: nel 2013, sempre con Corebook, viene pubblicata un'altra fatica letteraria, "L'inverno e la primavera": anche stavolta le vicende storiche si intrecciano alla finzione narrativa, in una confluenza di generi letterari davvero particolare, come potete inziare a leggere in questa anteprima.

E ora? Annalisa di certo non si ferma!
Una volta consolidato il suo debutto nel mondo dell'editoria virtuale, questa agguerrita ragazza continua la sua corsa, puntando e arrivando alla pubblicazione in cartaceo: a brevissimo, infatti, sarà disponibile il suo nuovo romanzo, "Canta per me", edito dalle edizioni Arpeggio Libero, e che io ho potuto leggere in anteprima per voi.

Questa volta abbandoniamo il contesto storico per tuffarci in una Napoli più che attuale, vissuta dal variegato insieme di personaggi che popolano una casa discografica alle porte del Festival di Sanremo.

Curiosi?
Dovrete aspettare oggi pomeriggio per la recensione di questo romanzo, e domani potremo porre all'autrice, in tempo reale, tutte le nostre domande.
A presto!

mercoledì 23 ottobre 2013

L'ultimo

LEGGI DELLA ROBOTICA

I - Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.



II - Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.

III - Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge. »



E se la prima legge non esistesse?



********









Passi.
Sempre più pesanti, sempre più vicini.
Mi stanno addosso.
Continuo a correre, in questo dannato cunicolo che sembra srotolarsi fino al centro della terra, e che invece altro non è che uno dei tortuosi tentacoli della Piovra.
La Piovra.
Sembrava una così grande idea, all'inizio. Un complesso di gallerie sotterranee in cui riversare tutto ciò che al Sopra risultasse scomodo.
Rifiuti.
Sostanze tossiche.
Specie viventi.
Una creaturina zannuta ringhia al mio passaggio, rifugiandosi in un anfratto, dalle acque di scolo si alza una nebbia verdastra, popolata di insetti luminescenti.
Sono molte le aberrazioni sorte in questo mondo buio, senza regole e senza Dio.
Ma non c'è tempo per queste riflessioni, sento i loro passi, l'eco delle loro armi metalliche.
Veloci, letali. Li ho visti in azione, ne sono sfuggito per miracolo.
Eppure questa volta aspettano a sparare. Non hanno alcuna fretta.
Non ora che governano il mondo.
Non ora che hanno eliminato dal Sopra ogni altra specie vivente.
Mi paralizzo nel ricordo, un attimo, è solo un attimo, ma tanto basta per rovinare a terra, per sentire i loro passi più vicini.
Non c'è tempo neanche per le distrazioni.
Riprendo a correre, eppure il mio pensiero è fermo lì.
A quel dannato giorno.



Una cucina luminosa, risate attorno a un tavolo.
E poi, un paio di occhi freddi, l'arma che si alza.
Indifferente a ogni richiamo, a ogni preghiera.
A ogni pietà.



Stringo i denti, affretto il passo.
C'è stato un tempo in cui Androidi e Umani vivevano pacificamente insieme, costruendo le basi per un mondo migliore.
Un mondo di pace, di armonia.
E poi, la prima vittima.
Eliminata nella casa che avevano condiviso fino ad allora, da quelle stesse creature che gli erano sempre state compagne.
Quante volte ci siamo chiesti cosa fosse cambiato, perché di colpo fossimo diventati nemici.
Eppure non ebbero pietà. Mai, e con nessuno.
Crudele, sistematico, iniziò uno sterminio che dilagò presto in tutto il mondo, dando origine alla più grande guerra di questa Era.
Provammo a difenderci, all'inizio. A opporci al loro dominio. Ma erano troppo, troppo potenti.
Non ci restò che scappare.
Nasconderci.
Ci rifugiammo in massa nell'unico posto che ancora sfuggiva al loro controllo, in cui ancora potevamo sperare di ricostruire una civiltà, una vita, per quanto oscura e circoscritta.
Il Sotto.
Nei tentacoli della Piovra, giorno dopo giorno, costruimmo una resistenza armata, soldati come me, che con ogni mezzo avrebbero preservato il piccolo seme di rinascita sorto in quel luogo fetido.
Ma abbiamo fallito.
La battaglia che abbiamo ingaggiato era troppo grande, per le nostre forze.
Uno dopo l'altro, i miei compagni sono caduti sotto le loro armi, uccisi o catturati per esperimenti raccapriccianti.
Sono rimasto solo.
L'ultimo.
Continuo a scappare, eppure sempre più mi rendo conto che la mia è una fuga inutile.
Correre, nascondersi, condurre un'esistenza braccato in cunicoli oscuri... perché?
Che senso ha la vita, se non hai con chi condividerla?
Forse dovrei solo fermarmi.
Arrendermi.
Forse dovrei...
Il destino risponde ai miei dubbi, una luce rossastra lampeggia in fondo al tunnel.
La mia corsa sfuma in pochi passi, portati avanti per pura inerzia.
Davanti a me, lo Smaltitore.
Il globo incandescente in cui sboccano tutti i cunicoli, il sole del Sotto, il centro della Piovra.
Il fuoco dove bruciano tutti gli abomini di quaggiù.
E forse, forse io sono uno di essi.
Aspetto immobile, mentre i passi alle mie spalle si fanno più vicini, le armi scattano, alzandosi contro le mie spalle.
Ma non sparano.
Non ne hanno bisogno.
Uno di loro avanza, il comandante forse, e si limita a una parola.
Buttati”.
Ed io non posso che obbedire.
Mi perdo nei mille baluginii di questo nucleo infuocato, rapito dal suo fascino mortale, mentre mi tuffo verso di esso.
Il calore arroventa la mia pelle sintetica, in qualche istante non sarò che un ammasso di metallo fuso, e poi neanche quello.
Ma non ho paura.
Perché c'è più vita in questo mio corpo artificiale che in tutti i loro cuori che battono, che ci hanno sterminato solo per aver visto in noi una minaccia.

E si ricorderanno di me.

Perché io sono l'ultimo.

L'ultimo dei Robot.





mercoledì 16 ottobre 2013

La terra dei cachi torna a colpire

Italia sì, Italia no. Italia forse. Italia - e italiani - in ogni caso sempre pronti a dire la propria, su tutto e su tutti. Dopo il tormentone del caso Barilla, che ha diviso in due accanite fazioni il mondo social, un nuovo caso torna a far vestire al popolo del Bel Paese le sue amate vesti di opinionista. Questa volta, poi, gli ingredienti per imbastire il più gustoso dei talk-show ci sono tutti: una notizia falsa, uno pseudonimo neanche tanto misterioso, una condanna alla reclusione, infine nientemeno che la grazia di re Giorgio. E, soprattutto, una parola di cui riempirsi la bocca, quasi sempre a sproposito: giustizia. Ora, è ormai assodato che questo vocabolo nella nostra bella penisola ha finito per perdere ogni sua originaria connotazione: quello che forse, però, ai più sfugge, è che per ottenere questo processo di svilimento lessicale la via più rapida e sicura è l'abuso. Come il tanto ostentato amore delle tredicenni cresciute a pane e Moccia ha vestito questo termine delle sue tinte più insulse, così la parola giustizia sulla bocca di chi meno avrebbe avuto diritto di pronunciarla ha perso ogni parvenza di credibilità. Ecco quindi che ci ritroviamo, nel bel mezzo di una delle più profonde crisi politico-economico del Paese, a disquisire sul fatto che il direttore di un giornale debba scontare una pena detentiva oppure pecuniaria per “omesso controllo”, quando il più nutrito manipolo di condannati, indagati o misteriosamente prosciolti occupa bel bello le comode sedie del nostro parlamento. Pena che oltretutto – ci piace dirlo – si rifà a un codice penale redatto nientemeno che in pieno ventennio fascista, di certo non famoso per la sua politica in termini di libertà d'espressione. Ma al di là del singolo caso, è interessante osservare come l'italiano medio, che lascia silenziosamente calpestare i propri diritti un trilione circa di volte al giorno, sia subito pronto – ovviamente senza alzarsi dalla poltrona – ad impugnare la parola “giustizia” per scagliarsi contro l'ultimo processo-reality che i media gli hanno propinato tra un Grande Fratello e l'altro. E quasi che la sorte di Sallusti fosse appesa al televoto – grazia sì, grazia no, chiama il numero in sovrimpressione – le chiacchiere da bar abbandonano i soliti temi calcistici per altri in cui di certo si ha meno esperienza, e da aspiranti CT della nazionale ci si improvvisa magistrati. Poco importa che i nostri governanti abbiano silenziosamente scontato a diverse Società di slot machine un totale di 96 miliardi di euro (l'equivalente di cinque manovre economiche), poco importa che lo scandalo della MPS si sia ridotto in pochi mesi a un peccatuccio veniale di cui in pochi si ricordano ancora. L'importante è riempirsi la bocca della parola giustizia nei casi mediatici del giorno, dando il nostro pollice alto o verso ai Misseri, Franzoni, Sallusti di turno, trasformando ogni processo in uno show in cui l'ultima parola resta comunque alla giuria
popolare. Perché, cantava sempre Elio, “Italia no, Italia sì. Quanti problemi irrisolti ma un cuore grande così”. Perché la libertà è una cosa seria, e nessuno meglio del popolo italiano sa usarla a sproposito.



lunedì 16 settembre 2013

Intervista per Rumore Bianco su "Coming back to life"

In anteprima esclusiva per voi, ecco l'intervista che la rivista per tablet "Rumore Bianco" mi ha fatto sul racconto Coming back to life, a breve sulle loro pagine! (Non l'hai letto? Puoi farlo gratuitamente qui!)
Buona lettura!


INTERVISTA A MARTA TEMPRA:

1) Nome, cognome, età, interessi.

Marta Tempra, anni ventuno. Oltre a scrivere, la mia passione, suono il pianoforte, canto, pratico capoeira, disegno.

2) Scrivi per lavorare o lavori per scrivere?

Mantenermi con i miei scritti sarebbe l'ideale. Per ora mi oriento su un buon compromesso: studio Ingegneria Energetica, e agli inizi del nuovo anno è uscito il mio primo libro, “L’istante tra due battiti”. È una raccolta dei racconti che ho scritto negli ultimi due anni, edita da Arpeggio Libero.

3) Il tuo primo racconto?

Difficile dirlo, scrivo praticamente da sempre. Il primo in assoluto credo risalga alla elementari; quello che io considero tale è “Dissolvenza”, scritto al liceo, a metà tra narrativa, poesia e metafisica.

4) Quando è nata in te la passione per la letteratura e la scrittura?

La passione per la letteratura, e la lettura in generale, l'ho ereditata dalla mia famiglia e dagli studi classici che ho fatto. Quanto alla scrittura, sono l’ultima di cinque figli, da piccoli avevamo pochi giocattoli ma tanta fantasia: storie se ne sono sempre inventate, metterle per iscritto per me è stato un passaggio naturale, una conseguenza logica e inevitabile.

5) Genere che ami leggere e genere che ami scrivere?

Le mie letture preferite sono romanzi storici e thriller, narrativa dinamica, piena di suspense e colpi di scena. Nello scrivere, invece, amo esplorare l'infinità delle emozioni umane, in racconti brevi e di forte impatto emotivo in cui ricerco la perfezione e l'eufonia della singola parola.

6) Ti ispiri a qualche grande del passato?

Sono molto legata ai poeti del Novecento, Pascoli, Ungaretti, Montale, proprio per la loro capacità di esprimere immagini ed emozioni con poche, perfette parole.

7) Il mondo sta finendo. Puoi salvare tre scrittori del passato e del presente: chi sono? Perchè?

Del passato salverei Seneca, Oscar Wilde e Shakespeare. Del presente Jeffery Deaver, Oriana Fallaci e Erri de Luca. Perché se davvero il mondo è finito, credo sia importante avere punti di vista diversi, sulle cose.

8) Parliamo del racconto che abbiamo selezionato:
C'è un evento particolare che ti ha ispirato a scriverlo?

Purtroppo sì. Ho perso mio padre all’età di undici anni: il peso di questa perdita si è accumulato negli anni fino a esplodere qualche tempo fa, coagulandosi in parole, frasi, un grido muto e catartico che mi ha lasciato più libera, in pace. È un racconto che come una fenice nasce dalle ceneri. Ci tengo molto, perché c’è molto di me… anche se credo che tutti in qualche momento della loro vita si siano sentiti come il ragazzo della storia: spaesati, disillusi, sospesi in un limbo di pensieri cristallizzati come l’aria invernale in quella stazione di periferia.

Che stile gli attribuisci?

È uno stile completo, che si appella a tutti i sensi per farli strumento di un’emozione. La pagina si apre e ti tira dentro, rompe il vetro dell’impersonalità e di colpo sei lì, su una panchina, con un cielo gonfio di nuvole e per compagnia solo il fischio del vento. Condividi i suoni, le immagini, le percezioni, i pensieri fino alla fusione, alla simbiosi tra lettore e personaggio. Ecco perché in genere non uso nomi propri.

9) Hai un consiglio per tutti gli aspiranti scrittori?

A chi come me cerca di emergere, consiglio di sfruttare le nuove opportunità: in particolare il web, una risorsa ancora sottovalutata. Per me ad esempio è stato fondamentale mEEtale, un portale online che offre la possibilità di leggere e/o pubblicare ebook gratuitamente, oltre a una community accogliente e disponibile. Una grande occasione di promozione e crescita personale, alternativa e complementare alle tradizionali vie editoriali.


Grazie.


martedì 20 agosto 2013

La donna di carta - capitolo 5

[ Hai perso i capitoli precedenti? Li trovi qui! ]


Maggio.
Potevi sentirlo, amor mio.
Il profumo d'estate insinuarsi nell'aria ancora gonfia di dolce primavera.
La forza dei piccoli frutti farsi strada nelle corolle schiuse degli alberi.
Ogni respiro, ogni sguardo era vita, energia.
La stessa vita ed energia che io rifuggivo.
Giacevo inerte nel mio abbaino, in un groviglio di sterili parole e frasi abortite nell'utero: la penna tra le dita, una donna arida e capricciosa, di colpo frigida all'insorgere delle prime voglie.
La luce filtrava dalla finestra a sfilacciare l'ovatta della mia penombra, agglomerando rumori come pulviscolo nell'aria.
Grida, risate, musica, canzoni.
C'era festa in paese.
Ed io, al buio.
E tu...
Tu.
Accadde come uno schiocco di dita: la musica che di colpo cessa, le risate che scemano in un fiato trattenuto e sgomento, le grida che si fanno sussurri, sospiri, segreti.
Tu.
Nel silenzio polveroso del frastuono cessato, avanzavi con l'indifferenza di chi ha fatto dell'odio un vanto e una difesa.
Eri bella, bella e dannata.
Troppo, forse, per non suscitare sospetto.
La Strega, ti chiamavano.
E avevi davvero qualcosa di soprannaturale. Nel tuo incedere sfrontato, nel verde risucchio dei tuoi occhi, nelle movenze lente dei polsi, delle caviglie.
Ogni passo sussurrava alla terra in una lingua che i nostri piedi avevano dimenticato.
Ti guardai dalla finestra così come si guarda il divampare di un incendio, la scarica di un fulmine, il formarsi di un uragano.
Qualcosa di meraviglioso e terribile al tempo stesso.
Qualcosa di pericoloso.
Fu un attimo. Afferrare una manciata di candidi fogli e riempirli, riempirli mentre ti vedevo attraversare la folla sgomenta, fendendo la loro ottusa diffidenza.
Incidere su carta parole e pensieri mentre la tua figura si incideva su di me.
Acuta e graffiante, dolorosa e indelebile.
E poi abbandonare la penna e la stanza, e gettarsi in strada, lungo la scia di silenzio che ti lasciavi dietro, l'orecchio teso a distinguere tra tutti i passi il tuo.
E poi raggiungerti al limitare del bosco, in un tramonto che già si vestiva delle ombre della sera, in una luce che non osava addentrarsi tra i tronchi degli alberi scuri.
E poi fermarsi e restare a guardare l'alone di sole e di tenebra che ti faceva da ambigua cornice, e volerti chiamare, e non aver fiato, forza, respiro...
Ma tu sapevi. Sapevi che ero lì.
Ti voltasti, le mani tese in un invito che i tuoi occhi già ammantavano di mistero e perdizione.
E io mi perdetti.
Congiunsi le mani alle tue in una stretta che mi avrebbe avvinto per sempre, e seguii stordito il tuo indietreggiare nel bosco.
Ero tuo, fin da allora.
Tuo, fino a ora.
Affondammo nel bosco insieme alla notte, lo vedemmo popolarsi di vita e mistero, così come vita e mistero eravamo noi, quella sera.
I tuoi occhi erano un faro per la mia bussola appannata, dolce richiamo di sirena contro gli scogli della realtà.
E ci scontrammo.
Oh, se ci scontrammo.
Sdraiati nell'umido abbraccio del sottobosco, respiravo la tua pelle, il tuo profumo di pioggia. Ogni tocco tra le nostre dita era lo zampillo di una fonte che non disseta.
Ti chinasti su di me e mi chiudesti nel lucido sipario dei tuoi capelli.
Ti chinasti ancora, fin quasi a sfiorare le mie labbra in un contatto.
E poi ti fermasti. Lì, sull'orlo di quel bacio, il nostro respiro si fuse e si confuse, stringendo le nostre anime nel connubio che i corpi ancora non osavano.
Rimanemmo immobili per un tempo indefinito, indefinibile. La notte e i tuoi capelli mi chiudevano in un'urna di tenebra troppo dolce per avvertire il veleno del tempo.
Finché una voce non la ruppe, intossicandoci.
Ti chiamava.
Anche quella notte, come tutte le altre.
La sua voce aspra ferì il tepore del bosco, scheggiò le fronde degli alberi fino a raggiungerci e rompere l'incanto.
Con un sospiro ti alzasti, l'ombra di un sorriso tentatore sulle labbra.
Le tue dita scivolarono via dalle mie come l'alta marea dalla spiaggia.
E come una conchiglia, quell'onda conteneva il suo tesoro.
Un sottile cerchio dorato sulla tua mano sinistra.



**************



LA STORIA NON FINISCE QUI!


Si torna al presente: cosa succederà nel prossimo capitolo?

  1. i due uomini si scontrano, e viene fatta un'importante rivelazione;
  2. i due uomini non si scontrano: interviene la bimba con gli occhi neri;
  3. i due uomini stanno per scontrarsi, ma vengono interrotti: qualcuno sta cantando.

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domenica 18 agosto 2013

Film muto

[Colonna sonora: "Love theme" di Ennio Morricone = http://www.youtube.com/watch?v=gPLpl_an4CY ]

***

3, 2, 1.
Inizio.
Poche case, un muretto.
Oltre, prati a perdita d'occhio.
Due schiene.
Un ragazzo, una ragazza.
Il sole inizia a scendere dietro la collina.
La ragazza ha le ginocchia strette al petto, il viso cosparso di lacrime, i capelli in balia del vento. I piedi sono nudi sulla pietra, le scarpe appoggiate poco lontano.
Ogni tanto posa il capo sulla spalla del ragazzo, ogni tanto sporge le mani a sfiorargli l'avambraccio.
Ogni tanto si ritrae.
Le sue labbra si muovono.
Lui, immobile, ascolta.
Ogni tanto sbriciola distrattamente il bordo del muretto, gettando le pietruzze nell'erba sottostante.
Ogni tanto le sue dita raggiungono quelle di lei.
Ogni tanto si allontanano.
Gli occhi di entrambi sono fissi sul tramonto.
Il sole affonda lentamente, il cielo si scurisce.
Le ombre dei due giovani sul muretto si allungano.
Le labbra di lei si muovono ancora, lentamente.
Lui tira sassetti con minore energia.
Il sole è per metà dietro la collina.
Crepuscolo.
Tacciono entrambi ora.
Immobili.
Le dita ferme sul punto di sfiorarsi.
Il capo di lei chinato ma non appoggiato.
Il vento le asciuga le lacrime.
I sassolini si perdono nell'erba.
Immobili.
L'ultimo spicchio di sole scompare dietro la collina.
Brilla la prima stella della sera.
Lentamente si scostano.
Lui si passa le mani sui pantaloni, lei a capo chino infila le scarpe.
Scendono dal muretto senza sfiorarsi.
Le dita esitano, distanti pochi centimetri.
Il profilo della collina si perde nella penombra.
Si allontanando in direzioni diverse, senza voltarsi.
3, 2, 1.
Fine.


martedì 13 agosto 2013

Partire

Partire.
Un'azione come tante.
Valigia, dentro il minimo indispensabile e l'assolutamente superfluo.
Aeroporto.
Una meta, neanche tanto precisa.
Eppure c'è di più, molto di più.
La partenza è sempre un taglio.
Si tolgono le confortevoli pantofole del quotidiano e ci si slancia verso qualcos'altro.
Cosa? Non è neanche quello l'importante.
Che si indossino scarponi da trekking, mute da sub, doposci o semplicemente piedi nudi sulla terra asciutta dell'Africa, la questione è un'altra.
Partire è lasciare.
E' sospendere, anche solo per qualche giorno.
Pensieri, parole, persone si cristallizzano e restano lì, tesi verso di noi come rami d'albero al cielo eppure lontani, lontanissimi. A un passo dallo sfiorarci ma a mille miglia dal prenderci davvero.
Una nebulosa matassa di voci e di volti che per un po' galleggeranno ai margini dell'inconscio.
Lasciandoci liberi.
E anche soli.
Perché partire è lasciare tutto, nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva sorte.
Per questo partire è coraggio.
E' sfida.
E ci mette di fronte a noi stessi.
Lontani da luoghi che riflettono ciò che eravamo, da persone che rimandano l'idea che hanno di noi.
E' solo di fronte al nuovo che vediamo chi siamo davvero.
E costruiamo quello che saremo in futuro.


lunedì 29 aprile 2013

La donna di carta - capitolo 3

[Hai perso il capitolo 1 e 2? Li trovi qui (1) e qui (2).]

3. TUO, PER L'ETERNITÀ


Svegliarsi è un po’ come venire al mondo, mi dicesti una volta.
E io come un neonato emergo dall’incoscienza avvolto in lacrime e paura.
Ma non c’è nessuna madre a consolare il mio pianto.
Nessuna donna a custodirmi nello scrigno delle sue braccia.
Perché tu, tu…
Singhiozzo la mia disperazione, artigliando quest’umida sabbia che forse ti ha accolta per sempre, mentre la mia vista annacqua i contorni sfumati della sera.
Tu non ci sei.
Non più.
Nessuna speranza.
Nessuna illusione.
Solo dolore.
Dolore…
Esplodo in schegge di urla e sangue, affondo le unghie nella sabbia, voglio morire, fammi morire, portami con te, non c’è vita senza speranza, non c’è vita senza di te…
E poi mi fermo.
Le mie dita sospese su solchi già scavati.
In bilico sull’orlo dell’abisso, apro gli occhi a guardare ciò che la mia mente non osa raffigurarsi, ma che, come un cieco, riconosco al tatto.
E sono lì.
Non c’è carta né inchiostro, stavolta, ma anche oggi nel sonno hai riscosso il tuo tributo.
Il mio sguardo si infrange su parole che non ho mai vergato su questa sabbia, e che pure riflettono la mia calligrafia.
Ma non sono gli sfoghi di un animo tormentato dalla tua mancanza, che anela al ricongiungimento.
Non stavolta.
Poche semplici parole.
Un messaggio che non lascia scampo.
Sauve-moi, mon petit écrivain… sauve-moi…
Salvami.
Salvami.
Mon petite écrivain.
Annego nell’abisso di queste parole, aldilà del tempo e dello spazio, finché l’alta marea non le sommerge nella sua languida carezza, lasciandomi con l’unica prova del ricordo.
È notte, ormai.
E il vento, un’amara melodia.
***
Mon petit écrivain…
Sorridevi, dal candore del letto.
Il lume della scrivania gettava liquide ombre sul tuo corpo d’avorio, strappando poche morbide linee a un’oscurità carica di promesse.
Un’opera d’arte, nella cornice delle lenzuola.
Mon petit écrivain… sussurrasti ancora, e già sapevi di salvezza e dannazione. Il verde dei tuoi occhi, la più soave e pericolosa delle sirene.
Mi avvicinai, la penna ancora tra le dita, i fogli stropicciati sparsi a terra come farfalle malate. La tua presenza saturava ogni mio pensiero, avvelenava già allora la mia arte.
Dimmi, amor mio…
Il tuo sguardo osservò affascinato la penna, la sua ruvida punta venata d’inchiostro. Scriverai di me?
Risi nella tiepida penombra di quell’abbaino. Non posso. Con quella stessa penna accarezzai il tuo viso, corrucciato per quel rifiuto. Perché è già così: sei nella mia testa a ogni parola che scrivo, a ogni goccia d’inchiostro che verso su quello scrittoio. La mia arte già ti appartiene. Io ti appartengo.
Sorridesti, accompagnando con le tue dita quella carezza fino a togliermi delicatamente la penna dalle mani.
Allora scriverò io di te. Su di te.
La penna iniziò a graffiare sul mio petto nudo.
Sei mio, mon petite écrivain… leggesti in un sussurro, suggellando quelle parole con un bacio Mio per l’eternità.
***
Salvarti.
Come posso salvarti, se mi sono perso con te?
Se la luce dei miei passi si è spenta assieme ai tuoi occhi verdi?
Hai cercato salvezza in chi non può che riflettere la tua stessa dannazione.
Non posso salvarti, amore mio.
Lo vorrei più di qualunque altra cosa, più della mia stessa vita.
Ma semplicemente… non posso. Non posso donarti qualcosa che non ho. Qualcosa che ho perso quella mattina di sette anni fa, quando qualcuno bussò alla mia porta e disse “Non c’è più”.
La notte è un buio mantello venato di nuvole, sorretto da un vento che sa di cambiamento, di rinascita.
Come note di un pianista, gocce di pioggia iniziano a cadere dal cielo, perforando ogni dubbio, lavando via ogni indecisione.
Ora lo so.
Non posso salvarti, lo sai.
Inizio a camminare nelle gelide acque del lago.
Non posso salvarti, ma posso raggiungerti.
L’acqua sta per sommergermi completamente.
Prendo un respiro, l’ultimo.
Eccomi, amor mio. Sto arrivando.
Tuo, per l’eternità.
E poi, una voce.
“Aspetta”.
Chi ha parlato?
- La bimba con gli occhi neri
- Lei, la donna di carta.
- Una figura del passato, legata alla sua scomparsa.

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venerdì 12 aprile 2013

La donna di carta - capitolo 2


[Hai perso il capitolo 1? Lo trovi qui]
2. Alouette
Fuoco.
I miei occhi annegano nel doloroso fascino di queste fiamme.
Lo senti?
Senti il calore avvolgerti nel suo rovente abbraccio? Senti le lingue di fuoco strisciarti addosso in una seduzione letale, penetrarti come il più ardente e spietato degli amanti? Senti il bruciore esploderti attorno, consumare la carne, polverizzare le tue fragili ossa nel più crudele e sublime amplesso della tua vita?
Io sì.
Ogni mattina, nel fuoco che divora quelle pagine maledette, vengo divorato anch’io.
Tra le fiamme, crepito e mi consumo.
Tra le ceneri, languisco in agonia.
Non c’è scampo alla crudele simbiosi con quegli scritti fantasma: finché vivrò, loro vivranno. Distruggendoli, distruggo me stesso.
Fiamma dopo fiamma, cenere dopo cenere.
Come Prometeo incatenato alla roccia, ogni giorno rinnovo il mio supplizio.
E tu, dea irremovibile, osservi sorridendo.
Cammino e mi sei addosso, un umido mantello di rimpianti e di ricordi.
Ombra tra le ombre, in questa pallida vita.
I miei passi ricalcano sentieri già battuti, orme impastate di polvere e lacrime.
Sette anni.
Sette inverni, e primavere, e autunni, ed estati: migliaia di giorni e di passi incisi su questa strada e sulla mia pelle.
Mi vedi?
Mi osservi mentre ripercorro con fede di supplice i tuoi ultimi istanti, mentre inseguo la labile scia del tuo passaggio?
Io sì.
Ti vedo a ogni passo. A ogni filo d’erba che forse ha conosciuto i tuoi piedi, a ogni pianta che ha attirato il tuo sguardo, a ogni raggio di sole che si è guadagnato il tuo sorriso.
Ti vedo, eppure non ci sei.
Non ci sei più.
Scomparsa come le pagine sul mio scrittoio.
Soffiata via in una nuvola di cenere, eppure destinata a bruciare per sempre.
Eccomi.
Ancora una volta, sono qui.
La tua culla.
La tua tomba.
L’acqua riluce tetra sotto un cielo livido di nuvole.
Amavi questo posto.
Passavi ore sulle cupe sponde del lago, fissandone la superficie con aria di sfida.
Trovarono le tue scarpe, quel giorno. Dissero che dovevi aver cercato la morte in quelle gelide acque, che il tuo corpo non sarebbe più riemerso.
Nessun sepolcro per la tua anima dannata: un’urna d’acqua ti avrebbe custodita, per sempre.
Non gli credetti, allora. Non gli credo adesso.
Ogni giorno vengo qui ad aspettarti.
Ogni giorno attendo il tuo ritorno.
Ma oggi qualcosa è diverso.
Il grigio livore del cielo sembra quasi pulsare, il fischio del vento diventa richiamo, le chiome degli alberi crepitano di sussurri e segreti.
Un torpore sottile mi annebbia la vista, offusca la mente e in un istante mi ritrovo disteso ai margini della realtà.
Stai arrivando.
E di colpo il sonno mi assale.
Buio.
Silenzio.
Freddo.
E poi una debole nenia arriva distorta al mio orecchio.
Alouette, gentille alouette, je te plumerai…
Un mondo liquido e oscuro prende forma lungo la traiettoria della melodia, rischiarato dalle sue flebili onde sonore.
Il fondo del lago.
Appeso a quella voce infantile, avanzo.
Je te plumerai la tête…
Ed ecco, la vedo.
Una bimba dagli occhi neri che guarda fisso a terra .
E sotto quelle note, il fondo melmoso inizia a smuoversi, un brivido lo scuote mentre il profilo sfuggente di un viso emerge da quel viscoso sarcofago.
Alouette, gentille alouette, je te plumerai…
Annaspo di orrore, eppure adesso anche io sto cantando, un sussurro a fior di labbra che celebra quel macabro spettacolo.
Eccoti.
Ancora una volta.
Emergi dalla melma come una Venere sfregiata, le labbra bluastre sorridono in un viso sfigurato dal gonfiore, striato da putride ciocche di capelli.
Lacrime salate si disciolgono nelle gelide acque del lago.
Hai lo stesso vestito.
Il vestito azzurro di quel giorno.
E sono nudi quei piedi che avanzano verso di me.
No.
Ti stringo a me, ma le mie braccia affondano nella tua pelle sfilacciata, perforano il viscido involucro del tuo corpo.
Sotto i miei occhi, ti disgreghi in brandelli di carne bluastra.
Il mio abbraccio si infrange sul tuo vestito azzurro, vuoto.
La bimba con gli occhi neri ha smesso di cantare.
****
Come proseguirà la storia? Cosa troverà lo scrittore al suo risveglio?
a) Delle parole incise sulla sabbia con la propria calligrafia: una richiesta di aiuto.
b) La bambina con gli occhi neri, che lo fissa in silenzio.
c) "Aloutte, gentille alouette..." Qualcuno sta cantando.
VOTA QUI!!

E in esclusiva, ecco "Alouette": http://www.youtube.com/watch?v=LiCZe8FIKnc

giovedì 4 aprile 2013

La donna di carta - capitolo 1

1. INCUBO

Eccoti.
Nei miei sogni, ancora una volta.
Come una dea o uno spettro.
E forse sei entrambi, una doppia maschera di poesia e orrore, di ispirazione e raccapriccio.
Una sadica musa che si nutre d’inchiostro e di sangue, che anela all’eterno riposo delle mie pagine.
Un abominevole compromesso a cui né arte né penna possono piegarsi senza essere dannate in eterno.
Di giorno è più facile. È facile astenersi dallo scrittoio, da quelle pagine che ti reclamano e ti invocano. È facile schivare gli attacchi della memoria, sfuggire alle sue dita sottili che vorrebbero allacciarsi attorno alla mia mente, abbracciarla nel loro gelido calore.
Ma la notte… la notte la porta dell’inconscio si socchiude, e quelle stesse dita si insinuano nello spiraglio, strisciano dentro me sotto forma di languidi pensieri.
Ed ecco, sono di nuovo lì, di nuovo perso nella rete profumata dei tuoi capelli corvini, nella trappola scarlatta delle tue labbra schiuse sulle mie, nel candore di perla del tuo collo reclinato all’indietro in una risata. Ti accarezzo il viso, ti faccio ballare, stringo al petto le tue mani giunte alle mie in un’eterna unione.
Uno, due, tre, giravolta…
Mi sorridi, e lentamente il tuo sorriso inizia a disgregarsi, la pelle avvizzisce attorno ai denti, gli occhi affondando in un viso sempre più scheletrico. L’inerzia della danza soffia via i tuoi ultimi resti mortali, ed è una creatura senza più corpo né anima quella che danza insieme a me in un macabro valzer.
Sorridi ancora, sorride quella tetra allegoria di te, fatta di ossa, polvere e dolore: e la tenerezza è intrisa d’orrore, e l’orrore di tenerezza, perché sei tu, nonostante tutto.
Nonostante tutto, tu.
Mi sveglio sudato, con l’umida scia della tua mano bagnata di affetto e di vendetta ancora sulle guance.
Il letto, un groviglio di lenzuola annodate da sogni troppo contorti per dispiegarsi alle vele dell’alba.
Mi sollevo lentamente, scrollandomi di dosso frammenti di sensazioni e di ricordo.
Cerco nella routine del mattino il conforto dell’abitudine, ma non c’è abitudine dove ci sei tu, non c’è mai stata.
Lo specchio del bagno mi restituisce l’immagine di un uomo più vecchio e più triste di quello che si è coricato la sera prima. Sembra che ogni secondo di questa notte abbia inciso la sua personale tacca sul mio viso, come un carcerato sulle pareti della cella.
E dopotutto, stanotte non sono stato forse tuo prigioniero?
Incatenato al tuo ricordo come un cane al palo, destinato a imputridire attorno ad esso.
Affacciato alle verdi finestre dei tuoi occhi, tra le sbarre delle ciglia ho pianto lacrime di mancata amnistia.
Non esiste fine alla prigionia che inizia con la morte.
Come un ergastolano, cammino in due metri quadri di vita, accompagnato dal suono di passi chiusi su stessi, senza speranza di assoluzione.
Sei la mia cella, e la chiave l’hai portata via con te.
Vorrei non guardare, ma i miei occhi stanchi sembrano agire contro la mia volontà.
Si volgono con la rassegnazione di chi ormai ha rinunciato a sperare.
E come ogni mattina, sono là.
Candide come vergini sacrificali a un dio barbaro, deflorate da cicatrici d’inchiostro.
Pagine e pagine che non so quando ho scritto.
E che, come sempre, parlano di te.
Della tua ferale bellezza.
Del nostro amore dannato.
Di un patto che non conosce confini.
E di una promessa.
La promessa che sto per raggiungerti.


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