mercoledì 16 ottobre 2013

La terra dei cachi torna a colpire

Italia sì, Italia no. Italia forse. Italia - e italiani - in ogni caso sempre pronti a dire la propria, su tutto e su tutti. Dopo il tormentone del caso Barilla, che ha diviso in due accanite fazioni il mondo social, un nuovo caso torna a far vestire al popolo del Bel Paese le sue amate vesti di opinionista. Questa volta, poi, gli ingredienti per imbastire il più gustoso dei talk-show ci sono tutti: una notizia falsa, uno pseudonimo neanche tanto misterioso, una condanna alla reclusione, infine nientemeno che la grazia di re Giorgio. E, soprattutto, una parola di cui riempirsi la bocca, quasi sempre a sproposito: giustizia. Ora, è ormai assodato che questo vocabolo nella nostra bella penisola ha finito per perdere ogni sua originaria connotazione: quello che forse, però, ai più sfugge, è che per ottenere questo processo di svilimento lessicale la via più rapida e sicura è l'abuso. Come il tanto ostentato amore delle tredicenni cresciute a pane e Moccia ha vestito questo termine delle sue tinte più insulse, così la parola giustizia sulla bocca di chi meno avrebbe avuto diritto di pronunciarla ha perso ogni parvenza di credibilità. Ecco quindi che ci ritroviamo, nel bel mezzo di una delle più profonde crisi politico-economico del Paese, a disquisire sul fatto che il direttore di un giornale debba scontare una pena detentiva oppure pecuniaria per “omesso controllo”, quando il più nutrito manipolo di condannati, indagati o misteriosamente prosciolti occupa bel bello le comode sedie del nostro parlamento. Pena che oltretutto – ci piace dirlo – si rifà a un codice penale redatto nientemeno che in pieno ventennio fascista, di certo non famoso per la sua politica in termini di libertà d'espressione. Ma al di là del singolo caso, è interessante osservare come l'italiano medio, che lascia silenziosamente calpestare i propri diritti un trilione circa di volte al giorno, sia subito pronto – ovviamente senza alzarsi dalla poltrona – ad impugnare la parola “giustizia” per scagliarsi contro l'ultimo processo-reality che i media gli hanno propinato tra un Grande Fratello e l'altro. E quasi che la sorte di Sallusti fosse appesa al televoto – grazia sì, grazia no, chiama il numero in sovrimpressione – le chiacchiere da bar abbandonano i soliti temi calcistici per altri in cui di certo si ha meno esperienza, e da aspiranti CT della nazionale ci si improvvisa magistrati. Poco importa che i nostri governanti abbiano silenziosamente scontato a diverse Società di slot machine un totale di 96 miliardi di euro (l'equivalente di cinque manovre economiche), poco importa che lo scandalo della MPS si sia ridotto in pochi mesi a un peccatuccio veniale di cui in pochi si ricordano ancora. L'importante è riempirsi la bocca della parola giustizia nei casi mediatici del giorno, dando il nostro pollice alto o verso ai Misseri, Franzoni, Sallusti di turno, trasformando ogni processo in uno show in cui l'ultima parola resta comunque alla giuria
popolare. Perché, cantava sempre Elio, “Italia no, Italia sì. Quanti problemi irrisolti ma un cuore grande così”. Perché la libertà è una cosa seria, e nessuno meglio del popolo italiano sa usarla a sproposito.



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