Che
fatica.
Scanso
una ciocca ribelle di capelli, ho la fronte madida di sudore,
nonostante il freddo.
È
notte, è inverno.
Ho
sedici anni.
Sono
incinta.
La
mia mano scende istintiva, c'è poco da nascondere, anche con vestiti
larghi.
È
lì, è lì da nove mesi ormai.
È
lì da quando non era che una notizia, un concetto senza alcun
riscontro fisico.
È
lì da quando ha iniziato a farsi strada dentro di me, creando la sua
culla, il suo rifugio.
È
lì da quando ho sentito la mia pancia gonfiarsi per fargli posto,
attutire dolcemente i suoi movimenti, i suoi primi gesti in questo
mondo, un'indole caparbia, indomita.
Un
po' come sua mamma.
Mamma.
Una parola così strana, riferita a me.
A
me che non me lo aspettavo, a me che non avrei dovuto, non ora, non
così.
E
l'ho scontato, altroché.
L'universo
intero si sta impegnando a farmi scontare questa pena, a farmi
sentire abbandonata, a insinuare perfino in me il dubbio che non vada
bene, che non ne valga la pena.
Che
sia sbagliato.
Il
biasimo silenzioso degli uomini, il disprezzo esplicito delle donne
contro una ragazza senza marito che aspetta un figlio da chissà chi.
La
mancanza di pietà nel bussare a una porta e sentirtela sbattere in
faccia, dopo uno sguardo a te e al tuo ospite indesiderato.
Ho
sedici anni, un bambino e un destino più grande di me.
La
notte è fredda, il sudore scivola sulla mia pelle come brina su fili
d'erba.
Mi
sfugge un gemito, iniziano le fitte.
Ma
va bene, è normale. Ogni tanto capita.
Cerco
di respirare.
Dentro,
fuori.
Dentro,
fuori.
Sta'
calma. Respira. Calma.
Ma
stavolta è diverso. Stavolta le fitte non smettono, ma anzi, tornano
regolarmente, a ondate, più forti ogni volta.
Il
gemito diventa urlo, mi accascio, le mani al ventre che sembra voglia
aprirmi in due.
Sta...
sta arrivando.
Il
bambino.
Non
c'è più tempo.
Sento
due braccia cingermi le spalle.
È
lui.
Il
mio uomo.
È
più grande di me, eppure è l'unico che abbia capito, che abbia
accettato.
Che
mi abbia voluta accanto, anche se porto in grembo il figlio di un
altro.
“Dobbiamo
fermarci”.
No!
“Non...
non può nascere qui” ansimo, ripiegata su me stessa.
“Non
puoi neanche proseguire” mi risponde lui, risoluto.
Si
china accanto a me, gli prendo il viso tra le mani, sentendo la sua
barba sotto le dita, appoggio la mia fronte caldissima alla sua, più
fresca.
Un'altra
fitta, altre grida.
“D'accordo”.
Mi
solleva, io chiudo gli occhi, stringo i pugni per resistere al
dolore.
Dentro,
fuori.
Respira.
Non
so dove andremo. Siamo in aperta campagna, troppo avanti dall'ultimo
paese, troppo indietro per il successivo.
È
notte, è inverno.
E
sto per partorire.
Mi
sento adagiare su qualcosa di morbido, le parole del mio uomo un
sussurro indistinto.
Mia
mamma diceva sempre che ogni donna è sola, quando partorisce, anche
se circondata da persone.
Qui
non ci sono persone.
Eppure
non mi sento sola.
Alzo
gli occhi al cielo, alle poche stelle che si intravedono attraverso
il soffitto di paglia del nostro rifugio.
Non
sono sola.
Respira.
Dentro,
fuori.
Dolore.
Respira.
Dolore.
Dentro,
fuori.
Fuori.
Fuori...
L'ho
appena scoperto, il suono più bello del mondo.
Un
pianto.
Un
pianto che racchiude paura, scoperta, passaggio e una miriade di
sensazioni... un pianto che racchiude la vita.
La
sua, la mia.
Mio
figlio.
Me
lo porto al petto, lo avvolgo nei vestiti, nel mio affetto, nel mio
cuore.
Mio
figlio.
Yehoshùa
.
Molto bello!
RispondiEliminaBrava Marta :-)