Età: 35 anni
Provenienza: Taranto
La Caduta
L'aurora rischiarava le
sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante
rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio,
come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli
occhi e respirò a fondo l'aria ancora frizzante della notte. <<E' ora di
muoversi>>, disse.
Guardai la mia sorella
maggiore di due anni che armeggiava con gli spallacci dello zaino. <<Ele,
non sono certa che possa funzionare.>>
Lei si fermò. I suoi capelli
ramati parevano accendersi alle prime luci dell’alba. Non ero certa che i miei,
del suo stesso colore, potessero fare un simile, meraviglioso effetto. <<Pamela,
se hai un’idea migliore ti ascolto>>, rispose aggrottando le
sopracciglia. <<Ma, come vedi, non mi sembra che abbiamo molta
scelta.>>
Mi guardai attorno. La
strada di periferia era deserta, ma non era per via dell’ora. Era deserta ormai
da giorni, come – apparentemente - il resto del mondo.
Quattro giorni, per la
precisione.
Ed era successo tutto così,
senza che ce ne fossimo accorte. Una mattina ci risvegliammo, e i nostri
genitori non erano nella loro camera, né in nessun’altra stanza della casa. Tentammo
di rintracciarli al cellulare, ma senza risposta. Provammo altri numeri,
compresi quelli del pronto intervento e bussammo alle porte dei vicini, senza
esito nell’uno o nell’altro caso; uscimmo in strada, ma non incontrammo nessuno.
Neanche radio e TV
funzionavano.
Per quello che ne sapevamo,
tutta l’Umanità era scomparsa nel nulla, lasciandoci orfane in quella
solitudine inspiegabile e spaventosa.
All’inizio mi lasciai
prendere dal panico: piansi e gridai. Ma Elena – naturalmente, e chi altri? Sempre Elena, l’impeccabile, sicurissima, lodevole
Elena – mi scosse e mi fece tornare in me. Prese in pugno la situazione:
aveva deciso per entrambe.
Preparammo gli zaini con
l’essenziale (il tutto stilato nei minimi dettagli da lei, si capisce) e
uscimmo, senza tralasciare gli affilatissimi coltelli da cucina che la mamma
teneva in un cassetto.
Ed ora non potevamo che
vagare, dall’alba al tramonto, in cerca di qualcuno.
Osservai l’espressione
contrariata di mia sorella. <<E se… non fosse rimasto nessuno?>>
Azzardai.
Elena scosse la testa. Tirò
fuori dallo zaino un apparecchio VHF portatile e lo accese sul canale 16.
<<Ascolta: non so se ci sia qualcuno o meno. Non so cosa sia successo e
perché. Ma se è rimasto qualcuno, ci conviene cercare. Potremmo rimanere a
casa, aspettando che qualcosa cambi. Ferme per anni magari, senza risolvere
nulla. Ma…>> fissò lo sguardo dritto nei miei occhi <<se facessimo
così, credo che nell’attesa impazzirei.>>
Mi guardai i piedi.
<<Già>> ammisi <<immagino che impazzirei anch’io.>>
Ci dirigemmo alle
biciclette lasciate poco lontano. La sera prima, assicurandole con la catena e
il lucchetto, suscitai lo scherno di mia sorella. <<Non credo che ci sia
il rischio che ce le rubino>> disse.
Ma era un’abitudine. Una
delle tante a cui non volevo rinunciare. Per lo stesso motivo per cui continuai
a scegliere un bagno lungo la strada che percorrevamo, oppure a nascondermi per
cambiarmi i vestiti. Se avessi perso queste accortezze, temevo che avrei perso
anche se stessa.
Mi scocciava ammetterlo, ma
avere Elena vicina era una fortuna immensa. I rapporti fra di noi non erano mai
stati idilliaci, ma in quel momento ero incredibilmente grata della sua
vicinanza. Non so cosa avrei fatto se non avessi avuto lei. Se non avessi avuto
nessuno.
Cominciammo a pedalare, in
silenzio.
La strada lasciò la città e
pian piano iniziò a serpeggiare nella campagna. Tutt’attorno il verde riluceva
al sole primaverile.
Non avevamo una meta
precisa: Elena voleva andare, tutto qui. Ed io con lei.
Il VHF emetteva di tanto in
tanto qualche scarica elettrostatica che ci faceva sobbalzare… ma per il resto,
taceva imperterrito. L’orizzonte era limpido e deserto.
<<Fermiamoci su
quella piazzola>> proruppe Elena nel silenzio, quando l’aria calda
cominciò a serrare le gole. <<C’è un po’ d’ombra.>>
Ci dividemmo una
bottiglietta d’acqua, tracannandola come due assetate nel deserto. Il sole ormai
picchiava duro.
<<Se non sbaglio, c’è
una stazione di servizio più avanti>> Esordii. <<Mi sembra che ci
sia anche un bar. Non credo che qualcuno protesterà, se prendiamo qualcosa.>>
Elena mi sorrise. Fu il
primo vero sorriso che mia sorella mi rivolgeva da quando ci eravamo svegliate
quattro giorni prima… O forse da più
tempo ancora, riflettei. Elena non mi
sorrideva così da non ricordo quanto.
<<Bene!>> Mi
rispose allegramente <<Allora andiamo a vedere se c’è qualcosa di
buono!>>
Si rimise in sella e
cominciò a pedalare.
La seguii. Pedalai con
vigore per raggiungerla, fino a che, inspiegabilmente, persi l’equilibrio e
caddi.
Non ho mai provato nulla di
più orribile. Caddi per un periodo senza tempo. La vista si annebbiò e le
orecchie cominciarono a ronzare, mentre coglievo l’ultimo debole eco della voce
di Elena che mi chiamava.
Fu come se venissi
risucchiata in un buco nero, apertosi improvvisamente sotto di me. Sentivo il
mio corpo perdere qualsiasi appiglio e precipitare, senza poter più fare
affidamento su udito e vista.
Cadevo e cadevo e cadevo e
cadevo.
Stavo lasciando Elena da
sola, precipitando in un vuoto che non sapevo dove mi avrebbe condotto.
Sto
ancora aspettando di saperlo.
Sto ancora cadendo,
rinchiusa dentro me stessa. In questa caduta non ho fatto che domandarmi se è
successa la stessa cosa anche a tutti gli altri. Se anche loro stanno cadendo. Se
prima o poi finirò da qualche parte.
Se Elena sta ancora
pedalando, diretta verso chissà dove.
Se prima o poi la rivedrò.