martedì 20 agosto 2013

La donna di carta - capitolo 5

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Maggio.
Potevi sentirlo, amor mio.
Il profumo d'estate insinuarsi nell'aria ancora gonfia di dolce primavera.
La forza dei piccoli frutti farsi strada nelle corolle schiuse degli alberi.
Ogni respiro, ogni sguardo era vita, energia.
La stessa vita ed energia che io rifuggivo.
Giacevo inerte nel mio abbaino, in un groviglio di sterili parole e frasi abortite nell'utero: la penna tra le dita, una donna arida e capricciosa, di colpo frigida all'insorgere delle prime voglie.
La luce filtrava dalla finestra a sfilacciare l'ovatta della mia penombra, agglomerando rumori come pulviscolo nell'aria.
Grida, risate, musica, canzoni.
C'era festa in paese.
Ed io, al buio.
E tu...
Tu.
Accadde come uno schiocco di dita: la musica che di colpo cessa, le risate che scemano in un fiato trattenuto e sgomento, le grida che si fanno sussurri, sospiri, segreti.
Tu.
Nel silenzio polveroso del frastuono cessato, avanzavi con l'indifferenza di chi ha fatto dell'odio un vanto e una difesa.
Eri bella, bella e dannata.
Troppo, forse, per non suscitare sospetto.
La Strega, ti chiamavano.
E avevi davvero qualcosa di soprannaturale. Nel tuo incedere sfrontato, nel verde risucchio dei tuoi occhi, nelle movenze lente dei polsi, delle caviglie.
Ogni passo sussurrava alla terra in una lingua che i nostri piedi avevano dimenticato.
Ti guardai dalla finestra così come si guarda il divampare di un incendio, la scarica di un fulmine, il formarsi di un uragano.
Qualcosa di meraviglioso e terribile al tempo stesso.
Qualcosa di pericoloso.
Fu un attimo. Afferrare una manciata di candidi fogli e riempirli, riempirli mentre ti vedevo attraversare la folla sgomenta, fendendo la loro ottusa diffidenza.
Incidere su carta parole e pensieri mentre la tua figura si incideva su di me.
Acuta e graffiante, dolorosa e indelebile.
E poi abbandonare la penna e la stanza, e gettarsi in strada, lungo la scia di silenzio che ti lasciavi dietro, l'orecchio teso a distinguere tra tutti i passi il tuo.
E poi raggiungerti al limitare del bosco, in un tramonto che già si vestiva delle ombre della sera, in una luce che non osava addentrarsi tra i tronchi degli alberi scuri.
E poi fermarsi e restare a guardare l'alone di sole e di tenebra che ti faceva da ambigua cornice, e volerti chiamare, e non aver fiato, forza, respiro...
Ma tu sapevi. Sapevi che ero lì.
Ti voltasti, le mani tese in un invito che i tuoi occhi già ammantavano di mistero e perdizione.
E io mi perdetti.
Congiunsi le mani alle tue in una stretta che mi avrebbe avvinto per sempre, e seguii stordito il tuo indietreggiare nel bosco.
Ero tuo, fin da allora.
Tuo, fino a ora.
Affondammo nel bosco insieme alla notte, lo vedemmo popolarsi di vita e mistero, così come vita e mistero eravamo noi, quella sera.
I tuoi occhi erano un faro per la mia bussola appannata, dolce richiamo di sirena contro gli scogli della realtà.
E ci scontrammo.
Oh, se ci scontrammo.
Sdraiati nell'umido abbraccio del sottobosco, respiravo la tua pelle, il tuo profumo di pioggia. Ogni tocco tra le nostre dita era lo zampillo di una fonte che non disseta.
Ti chinasti su di me e mi chiudesti nel lucido sipario dei tuoi capelli.
Ti chinasti ancora, fin quasi a sfiorare le mie labbra in un contatto.
E poi ti fermasti. Lì, sull'orlo di quel bacio, il nostro respiro si fuse e si confuse, stringendo le nostre anime nel connubio che i corpi ancora non osavano.
Rimanemmo immobili per un tempo indefinito, indefinibile. La notte e i tuoi capelli mi chiudevano in un'urna di tenebra troppo dolce per avvertire il veleno del tempo.
Finché una voce non la ruppe, intossicandoci.
Ti chiamava.
Anche quella notte, come tutte le altre.
La sua voce aspra ferì il tepore del bosco, scheggiò le fronde degli alberi fino a raggiungerci e rompere l'incanto.
Con un sospiro ti alzasti, l'ombra di un sorriso tentatore sulle labbra.
Le tue dita scivolarono via dalle mie come l'alta marea dalla spiaggia.
E come una conchiglia, quell'onda conteneva il suo tesoro.
Un sottile cerchio dorato sulla tua mano sinistra.



**************



LA STORIA NON FINISCE QUI!


Si torna al presente: cosa succederà nel prossimo capitolo?

  1. i due uomini si scontrano, e viene fatta un'importante rivelazione;
  2. i due uomini non si scontrano: interviene la bimba con gli occhi neri;
  3. i due uomini stanno per scontrarsi, ma vengono interrotti: qualcuno sta cantando.

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domenica 18 agosto 2013

Film muto

[Colonna sonora: "Love theme" di Ennio Morricone = http://www.youtube.com/watch?v=gPLpl_an4CY ]

***

3, 2, 1.
Inizio.
Poche case, un muretto.
Oltre, prati a perdita d'occhio.
Due schiene.
Un ragazzo, una ragazza.
Il sole inizia a scendere dietro la collina.
La ragazza ha le ginocchia strette al petto, il viso cosparso di lacrime, i capelli in balia del vento. I piedi sono nudi sulla pietra, le scarpe appoggiate poco lontano.
Ogni tanto posa il capo sulla spalla del ragazzo, ogni tanto sporge le mani a sfiorargli l'avambraccio.
Ogni tanto si ritrae.
Le sue labbra si muovono.
Lui, immobile, ascolta.
Ogni tanto sbriciola distrattamente il bordo del muretto, gettando le pietruzze nell'erba sottostante.
Ogni tanto le sue dita raggiungono quelle di lei.
Ogni tanto si allontanano.
Gli occhi di entrambi sono fissi sul tramonto.
Il sole affonda lentamente, il cielo si scurisce.
Le ombre dei due giovani sul muretto si allungano.
Le labbra di lei si muovono ancora, lentamente.
Lui tira sassetti con minore energia.
Il sole è per metà dietro la collina.
Crepuscolo.
Tacciono entrambi ora.
Immobili.
Le dita ferme sul punto di sfiorarsi.
Il capo di lei chinato ma non appoggiato.
Il vento le asciuga le lacrime.
I sassolini si perdono nell'erba.
Immobili.
L'ultimo spicchio di sole scompare dietro la collina.
Brilla la prima stella della sera.
Lentamente si scostano.
Lui si passa le mani sui pantaloni, lei a capo chino infila le scarpe.
Scendono dal muretto senza sfiorarsi.
Le dita esitano, distanti pochi centimetri.
Il profilo della collina si perde nella penombra.
Si allontanando in direzioni diverse, senza voltarsi.
3, 2, 1.
Fine.


martedì 13 agosto 2013

Partire

Partire.
Un'azione come tante.
Valigia, dentro il minimo indispensabile e l'assolutamente superfluo.
Aeroporto.
Una meta, neanche tanto precisa.
Eppure c'è di più, molto di più.
La partenza è sempre un taglio.
Si tolgono le confortevoli pantofole del quotidiano e ci si slancia verso qualcos'altro.
Cosa? Non è neanche quello l'importante.
Che si indossino scarponi da trekking, mute da sub, doposci o semplicemente piedi nudi sulla terra asciutta dell'Africa, la questione è un'altra.
Partire è lasciare.
E' sospendere, anche solo per qualche giorno.
Pensieri, parole, persone si cristallizzano e restano lì, tesi verso di noi come rami d'albero al cielo eppure lontani, lontanissimi. A un passo dallo sfiorarci ma a mille miglia dal prenderci davvero.
Una nebulosa matassa di voci e di volti che per un po' galleggeranno ai margini dell'inconscio.
Lasciandoci liberi.
E anche soli.
Perché partire è lasciare tutto, nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva sorte.
Per questo partire è coraggio.
E' sfida.
E ci mette di fronte a noi stessi.
Lontani da luoghi che riflettono ciò che eravamo, da persone che rimandano l'idea che hanno di noi.
E' solo di fronte al nuovo che vediamo chi siamo davvero.
E costruiamo quello che saremo in futuro.